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Ibrahimovic, pronto a tornare in Italia: quando alla Juve imparò a fare goal grazie a Capello

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Zlatan Ibrahimovic, non si parla di altro in questo periodo, quale migliore occasione per scoprire tanti aneddoti italiani raccontati proprio dal campione svedese

Zlatan Ibrahimovic in un modo o nell’altro fa sempre parlare di sè, il campione svedese, numero uno non solo sul campo ma soprattutto a livello mediatico,  si è praticamente confessato a 360°, ma senza mai menzionare il suo futuro (molto vicino al Milan). Ibra in Italia ha giocato con Juventus, Inter e Milan collezionando scudetti con tutte e tre le maglie indossate. Tanti gli aneddoti, tutti raccontati con goliardia ed un velo di malinconia:«Alla Juve ho imparato a fare gol, Capello mi disse: “Ascolta, qui siamo ad alti livelli, devi fare bene e sei un attaccante, quindi devi fare gol. E se non lo fai, non abbiamo bisogno di te”. Non ho mai rifiutato una sfida, vengo dal pianeta Zlatan». Ai microfoni della BBC, Ibra racconta la sua “nascita” a partire proprio dalla Juventus, squadra che a suo dire lo ha lanciato al grande calcio, quando ancora era un ragazzone inesperto ma sicuramente promettente.

SUGLI INIZI- «All’inizio della carriera non era così importante fare gol, ma avere le migliori qualità, la miglior tecnica e portare queste cose dovunque andassi. Il cambiamento è avvenuto alla Juventus. Tutto era nuovo per me, era tutto un ‘wow, grande squadra, grandi giocatori, grande allenatore, grande storia’. Dal primo giorno di allenamento ho sentito Capello gridare ‘Ibra!’. Prendeva i ragazzi delle giovanili e li faceva allenare con me: loro crossavano, io dovevo fare gol. Ogni giorno per 30 minuti. Io volevo solo andare a casa perché ero stanco e non volevo più tirare, né vedere la porta e i portieri. Sentivo sempre quell’urlo ‘Ibra!’ e sapevo cosa significasse. Tiravo, tiravo. Bei tiri, brutti tiri. Alla fine sono diventato una macchina, davanti alla porta segnavo. Specialmente in Italia, è difficile per un attaccante. Anzi è la posizione più difficile, perché sono bravi tatticamente. Ricordo una gara contro Maldini e Nesta. Contro di loro – e con un portiere come Dida contro – hai mezza chance. Per fortuna mi allenavo con Buffon, Thuram e Cannavaro: se superavo i difensori, poi dovevo superare Buffon. Diciamo che mi sono allenato in un ambiente ideale per imparare a fare gol e i gol poi sarebbero arrivati».

MANCHESTER UNITED- «Quando ho deciso di andare in Inghilterra, ho parlato prima con diversi giocatori che conoscevo e che mi avrebbero dato un parere onesto. Tutti mi dicevano di non andare, che non sarebbe stato un bene per la mia carriera perché in Inghilterra si viene giudicati dopo appena una stagione. Se non fai bene la prima stagione, loro diranno che non servi a nulla, perché non ce l’hai fatta in Inghilterra. Queste parole hanno innescato in me la sfida: era quello che volevo sentirmi dire. Pensavano fossi vecchio, ma a 35 anni ho fatto sembrare io la Premier League vecchia: mi sono dato tre mesi per dimostrare a tutti chi fossi. Quella era la sfida e io non ho mai rifiutato una sfida. Lo United era la squadra giusta per me, il club e la maglia che dovevo far brillare e l’ho fatto. Al Manchester mi sono sentito come Benjamin Button, stavo diventando più giovane. Poi purtroppo mi sono infortunato. Quando è successo non ho capito a cosa sarei andato incontro, perché non avevo mai avuto un infortunio serio. Ero come Superman, indistruttibile. Nessuno poteva ‘rompermi’, solo Zlatan poteva infortunare Zlatan. Ho detto, ‘questo non è il modo in cui voglio smettere di giocare a calcio, voglio tornare e giocare come facevo prima. Se non sarà così non continuerò, perché non sono qui per beneficenza».

SULLA FAMIGLIA- «Mia moglie non mi permette di avere foto di me appese per casa. Dice che si parla già troppo di me e non vuole vedermi sui muri, le basta vedermi nella vita reale. In casa abbiamo una foto dei miei piedi: è un promemoria per la mia famiglia, non per me, ricorda quello che abbiamo: sono loro che hanno creato tutto questo, tutto quello che c’è intorno a me: quei due piedi. Certo, sono brutti esteticamente, ma chi se ne importa. Abbiamo da mangiare grazie a quei piedi».

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