ART News

Agenzia Stampa per emittenti radiofoniche

“Sùn Nà” è Il nuovo disco di Max Fuschetto

7 min read

Dopo il successo ottenuto con l’album di debutto “Popular Games”Max Fuschetto torna con il secondo lavoro “Sùn Ná” . Il titolo nasce dall’incontro di  due parole di lingua Yoruba presenti in un canto africano raccolto da Gerhard Kubik che significano “dormi ora”.

Compositore, oboista, autore sempre attento all’incrocio dei linguaggi, Max Fuschetto torna sulla scena musicale sperimentando nuovi equilibri e inedite combinazioni sonore riuscendo, nel contempo, ad elogiare le diversità e le connessioni.  Ha infatti mescolato in questo nuovo progetto discografico più lingue, si canta in francese, in inglese, in lontane lingue africane ed in arbereshe,  il tutto condito da musica colta, etnica, popular, improvvisazione e molto altro. ART-News ha scambiato qualche battuta con l’artista per portarvi in questo viaggio tra innovazione e tradizione .

Il titolo del suo nuovo album deriva da un dialetto dell’Africa occidentale.Perché questa scelta ?

“Una delle caratteristiche del disco, e probabilmente della mia scrittura, è la stratificazione. Non solo culturale ma anche psicologica. Quando ci fermiamo a guardare qualcosa, come ad esempio un riflesso di luce, è come se si realizzasse una sospensione: il tempo si dilata, c’è una convergenza sul proprio mondo interiore, si percepisce la presenza di un’ altra realtà che sconfina nell’immaterialità e nella sfuggevolezza dell’universo onirico. Quando ho scritto il testo di Oniric States of Mind  ho trovato che questa parola in lingua Yoruba, Sùn Nà, che significa dormi ora, potesse rappresentare la parola chiave, ripetuta alla fine di ogni sequenza di immagini poetiche, per interrompere questo flusso di realtà e sogno, inteso anche come rielaborazione profonda e caotica del vissuto, che agita la coscienza. Poi c’è stata la scoperta che sunnà, scritto tutto insieme, nel mio dialetto significa sognare. Lì si apriva un altro mondo. E ho voluto che nella sua brevità questa parola dischiudesse qualcosa di cui conosco solo la superficie o i contorni ma che mi piacerebbe afferrare”.

Sunnà_Cover_MaxFuschetto

Qual è il concept di “Sùn Nà”?

“Ci sono stati diversi momenti nella realizzazione di Sùn Nà in cui credevo di muovermi partendo da un’idea primitiva. Poi ho capito che ogni brano aveva la sua storia, arrivava da una direzione differente. L’unica cosa che mi sembrava possibile era quella di lavorare ad una unità di scrittura. Date delle costanti, come ad esempio l’uso della chitarra elettrica, ho lavorato nella direzione delle varianti o meglio delle risorse: questo strumento ora è solista, ora diviene liquido trasparente dove il metallo compatto della musica perde progressivamente le sue qualità organiche. Nei testi realizzati da me e dalla cantante e poetessa Antonella Pelilli oltre alla dimensione onirica c’è una poetica che parte, anche in virtù della presenza della lingua arberesh, dai temi universali dell’amore, della spiritualità e del mistero della natura per arrivare al caos linguistico di Samaher (nome di un personaggio chiave de “La sposa liberata” di Abraham Yehoshua), metafora di un condominio di casbe che affollano il Mediterraneo”.

Quali sono state le tappe fondamentali che l’ hanno portata alla realizzazione di “Sùn Nà”?

 L’idea di partenza aveva un titolo e cioè Le rose di Arben. Volevo esplorare e rileggere, grazie alla collaborazione con Antonella Pelilli, il repertorio arberesh. Tuttavia strada facendo ha prevalso il creare musica completamente nuova in cui l’arberesh rappresenta un elemento linguistico espressivo originale che va ad affiancarsi ad altre lingue come il francese. Arben nel frattempo, da luogo di partenza nel Medioevo delle popolazioni arberesh verso l’Italia, si è trasformato in un luogo indeterminato di arrivo o forse di ritorno. Return to A (quinta traccia del disco) col suo ritmo da marcetta e un sincopato di banda, che va presto a liquefarsi in nuvole di suono, rappresenta questa trasformazione: la A puntata stava per Arben ma dopo un po’ questa parola si è dissolta lasciando al suo posto un luogo kafkiano esprimibile solo con un punto dopo una lettera. In Sùn Nà c’è qualcosa di nuovo che appare e qualcos’altro che va dissolvendosi”.

Il disco contiene una tracklist di brani che vanno dal francese, all’inglese e all’africano. Da dove nasce l’esigenza di mescolare più lingue e che genere di difficoltà ha incontrato nel fare ciò?

 “Probabilmente la lingua prevalente è l’arberesh, considerata anche la presenza di Antonella, tuttavia in questo lavoro sentivo progressivamente il desiderio di trasferire in musica il melting pot linguistico che oggi ascoltiamo con naturalezza nelle nostre città e nei nostri paesi,  inimmaginabile solo qualche tempo fa. Tuttavia in alcuni brani come Paisagem do Rio e altri, l’uso dell’inglese o del francese riguarda solo una questione estetica. A volte, come nel linguaggio quotidiano, viene usata nel bel mezzo di un discorso una parola proveniente da un’altra lingua, una sorta di gioco linguistico: “I stop to hear feeble sounds from Paisagem do Rio” … Difficoltà ? Tante, ma di solito diventano l’anticamera alla soluzione inedita. In Qem Ma tia la rilettura della parte armonica e l’introduzione di una ritmica più serrata da parte del chitarrista Pasquale Capobianco mi hanno suggerito nuove linee e nuovi strumenti come il Rhodes e la riscrittura della melodia della voce“.

Per il suo nuovo lavoro si è avvalso anche di diverse collaborazioni, in particolare quella con Andrea Chimenti. Com’è nata?

“Avevo conosciuto Andrea qualche tempo fa grazie alla mia amica scrittrice Monica Mazzitelli e mi aveva sorpreso la bellezza della sua poetica musicale e le straordinarie capacità espressive della sua voce. Quando nella realizzazione di “Les Roses d’Arbèn “ ho pensato che sarebbe stata una interessante variante, sullo stile di alcune forme poetico-musicali trovadoriche, l’alternanza di una voce maschile a quella femminile, mi è venuto naturale immaginare la melodia cantata da Andrea”. 

A distanza di cinque anni è tornato sulla scena musicale. C’è qualcosa in cui si sente cambiato?

“Anche se Popular Games è del 2010, da allora sono accadute moltissime cose come la collaborazione sempre più stretta con l’ensemble delle Percussioni Ketoniche: per il loro spettacolo Campana e Sonus ho scritto Nuragas, un brano per quattordici campanacci ed elettronica. L’esperienza con le Ketoniche mi ha portato a vivere uno spazio rituale, quello delimitato dalle sonorità e dagli inediti oggetti sonori da loro utilizzati (diciotto campane, campanacci, tamburi di ogni sorta, oggetti di riciclo), alquanto originale. Con questo progetto siamo approdati all’Auditorium Parco della Musica di Roma e poi al Festival Universale delle culture, al Ravello Festival e a tanti altri appuntamenti significativi. Con Antonella Pelilli abbiamo invece portato avanti con “Divertimenti popolari” prima e “Le rose di Arben” poi, un’esperienza musicale che partendo dal repertorio arberesh si sta evolvendo verso universi poetici e sonori nuovi. Sempre in questi anni ho realizzato altri lavori, ad esempio le musiche per il corto di Monica Mazzitelli Midsommar , eseguite dal pianista Girolamo De Simone e il violoncellista Silvano Maria Fusco”.

Ci parli dei suoi esordi. A che età si è avvicinato alla musica?

“L’incontro con la musica è stato casuale, avevo poco più di sette anni e volli seguire un mio amico d’infanzia che prendeva lezioni dalla suora del mio paese. Poi a undici anni mi iscrissi al conservatorio frequentando la classe di oboe, tuttavia un’esperienza davvero singolare e formativa fu il fatto che l’anno successivo fui ingaggiato da un complesso del mio paese, Fondo Perduto, formato tra gli altri dal mio amico e percussionista Giulio Costanzo. Questo gruppo non si limitava ad eseguire brani di repertorio. La cantina dove ci vedevamo il sabato sera era un’autentica fucina creativa di cui conservo ancora delle bellissime registrazioni di brani inediti”.

Quali sono i suoi riferimenti musicali?

“Questa volta vorrei evitare di stilare un lungo elenco di compositori di cui poi, ascoltando la mia musica, è difficile rinvenire delle tracce evidenti. Vorrei fare solo un nome che ritengo un immancabile compagno di viaggio: Bèla Bartòk. La cosa che mi ha sempre affascinato in lui è il passaggio, sin dagli esordi, da una scrittura estremamente semplice, ma comunque fresca e innovativa nei risultati, come quella di For Children, alle complessità del coevo I Quartetto d’archi. Per Boulez questo era un difetto, per me vale invece il pensiero di Frank O’Hara su Pollock :”la cultura è in grado di ospitare simultaneamente più di una verità in una data epoca. Ben pochi artisti sono in grado di sostenerne più d’una e se ci riescono, invece di essere celebrati vengono spesso accusati di “stile incoerente” e di “mancanza di unità” …”   Tuttavia, per quanto mi riguarda, credo che la cosa più importante per un compositore sia l’universo di stimoli extramusicali che si vive. Spesso le soluzioni arrivano da lontano”.

L’aspetto più difficile nel fare musica oggi?

“Di certo la quadratura economica. Si tende a considerare la musica come naturalmente gratuita mentre per produrla e portarla in giro servono energie, budget, il riconoscere che più alto è il livello performativo e più la musica diventa un’attività che impegna totalmente. Questo vale anche per un disco”.

Quando potremmo ascoltarla dal vivo?

 “Ci saranno diverse occasioni: dalla seconda tappa di Sùn Nà al Museo del Sannio di Benevento venerdì 17 Aprile, e poi domenica 19 Aprile di nuovo a Napoli, ai numerosi appuntamenti di Maggio che ci vedono il 15 a Galleria Toledo per il ventennale di Konsequenz e poi a Giulianova il 20, a Fano e Pesaro il 29 e così via col desiderio di vivere esperienze che diano la possibilità di conoscere e sperimentare”.

Info: www.maxfuschetto.eu – www.synpress44.com

Carmen De Sio

c.desio@art-news.it

Twitter:CarmenDeSio

Autore

Lascia un commento